L’Italia fornisce grazie all’euro significativi input per l’export di “Fabbrica Europa” in materia di metalli, electrical equipment, trasporti terrestri. Lo evidenzia lo studio condotto dall’Istituto di ricerca sulla crescita economica sostenibile del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-IRCrES) assieme all’Università di Roma Tre, pubblicato su Italian Economic Journal.
Lo studio ha analizzato l’andamento delle esportazioni italiane verso i Paesi Uem e non Uem dal 1995 al 2012, verificando che l’euro fa registrare una bilancia commerciale quasi sempre in attivo. È la prima volta che in Italia viene condotta un’analisi di valutazione delle politiche commerciali con il Synthetic control method (Scm), uno strumento statistico ancora poco utilizzato in ambito economico-finanziario. Nella fattispecie, questo metodo ha permesso di stimare che cosa è accaduto all’Italia, rispetto a un gruppo di controllo, dal momento in cui ha ricevuto il “trattamento”, ovvero dall’introduzione della moneta unica europea. I ricercatori hanno scelto, inoltre, di investigare non il flusso commerciale lordo delle esportazioni, bensì il valore economico aggiunto dall’Italia ai prodotti esportati, finiti e intermedi, all’interno della catena globale di valore (Gvc), la risultante delle diverse fasi della produzione di un bene, ad esempio l’aumento degli scambi e del commercio internazionale.
“Al tradizionale commercio di beni pronti per il consumatore, si è affiancato da tempo un nuovo commercio di beni intermedi”, spiegano Luca Salvatici e Silvia Nenci, ricercatori dell’Università di Roma Tre. “Lo studio che abbiamo condotto ha valutato il valore netto di queste esportazioni in funzione del tempo, ottenendo una misura più precisa del grado di coinvolgimento della nostra economia nella Gvc”.
“I risultati mostrano innanzitutto che la moneta unica ha influenzato positivamente il valore aggiunto delle esportazioni italiane, quindi la partecipazione italiana alla catena globale. Nel periodo di riferimento le esportazioni sono aumentate verso i Paesi Uem e non Uem presi in considerazione dallo studio (28 paesi tra cui Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Cina e Giappone)”, proseguono Giovanni Cerulli e Antonio Zinilli, ricercatori del Cnr-IRCrES. “Questo avviene indipendentemente dalla specializzazione del commercio italiano, coinvolgendo settori in cui l’Italia da sempre gode di vantaggi comparati, ad esempio i metalli di base, ma anche le aree in cui tali vantaggi non sono mai stati evidenti, ad esempio apparecchiature elettriche e ottiche e servizi di trasporto terrestre. La stessa eterogeneità vale anche per le poche esportazioni che hanno registrato un impatto negativo dall’introduzione dell’euro, quali i prodotti chimici e carbone, che da sempre soffrono di uno svantaggio comparato”.
L’adozione dell’euro ha però rallentato, soprattutto nei primi anni dopo l’ingresso nella Uem, settori come l’agricoltura e l’alimentazione. “Questi diversi tipi di andamento, detti forward e backward, analizzati insieme suggeriscono che l’introduzione dell’euro abbia fornito un’evidente spinta al ruolo italiano come fornitore di input per la ‘Fabbrica Europa’, riducendo d’altro lato la dipendenza delle esportazioni italiane dagli impulsi esteri”, concludono gli autori dello studio. “Una possibile spiegazione potrebbe risiedere negli investimenti diretti delle imprese nella produzione locale, favoriti dalla moneta unica rispetto all’importazione dei beni necessari per le loro successive esportazioni”.